Riproporre al cinema, in versione restaurata, Ricomincio da tre, capolavoro di Troisi che nel 1981 spiazzò e sbancò, è stata operazione culturale dall’intento nobile ma destinata a pochi vista l’oscenità del prezzo del biglietto (12 euro), scelta impopolare che l’artista di San Giorgio a Cremano avrebbe demolito con la sua inimitabile narrativa di vuoti e riflessioni stroppiate. Cogliamo l’evento, però, non tanto per ragionare sulla parola troisiana, immune da restaurazioni poiché oltre il tempo e i tempi, quanto per inforcare una bici e seguirne il tragitto.
L’oggetto che meglio ricorda Massimo Troisi – e che più di altri circola nella memoria collettiva – è una bicicletta. Non da corsa ma una di quelle sgangherate e di battaglia che porta ancora tra le ruote l’antica voce dell’ingranaggio. Un’anima metallica, immortalata con il mare nei raggi, appartenuta a Mario Ruoppolo, postino e poeta. L’ultimo giro di vita e di cinema Troisi lo volle pedalare. Poteva scegliere un coupé, congedarsi con un sorpasso, sparire dai finestrini di un treno fumante o andarsene via su un aereo come fa l’asmatico Che nel film I diari della motocicletta. No, ha preferito una bici, così simile a quelle dei fraterni nemici Don Camillo e Peppone, la più umile delle bici, autentica icona di poesia, supremo elogio della lentezza. Massimo Troisi e la bicicletta: non è un caso. Una delle scene cult di Ricomincio da tre è quella in cui Lello (Arena), per convincere l’emigrante Gaetano (Troisi) a portarlo in bici, gli promette che si fa «liggiero». Memorabile il battibecco. Troisi: «All’anima ‘e chi t’è… E fatte liggiero!»; Lello: «E comme faccio a me fa’ liggiero?»; Troisi: «Nun può gghi a ppere! E fatte liggiero… e ccorna ca tiene!». Dalle pedalate titubanti di Gaetano a quelle stanche di Mario Ruoppolo: il viaggio cinematografico dell’artista partenopeo si apre e si chiude con quel mezzo di locomozione neorealista che conserva umanità per la velocità contenuta e preserva l’individuo da percorsi irriflessivi.
Nei suoi film Troisi non corre mai e raccomanda l’arte di passeggiare. La sua ciclosofia ha creato personaggi che camminano, pedalano o tutt’al più stanno fermi come il barbiere Camillo in Le vie del Signore sono finite, psicosomatico che sceglie d’inchiodarsi, quando gli conviene, su una carrozzella. La sua poetica sembra ispirarsi a quei filosofi che seminavano idee camminando come i peripatetici Socrate, Aristotele, Kant, Heidegger e Rousseau, il quale in Passeggiate solitarie, confessò: «Non posso meditare se non camminando: appena mi fermo non penso più». Le sue pellicole non sono motorizzate perché i suoi antieroi non gareggiano né rincorrono, ma passeggiano per sciogliere un sentimento, scovare una soluzione, imbastire consolazioni. Troisi come De Sanctis che nel suo viaggio elettorale accenna un inno al solvitur ambulando quando rivela: «Io soglio meditare passeggiando. Se mi seggo le idee mi si abbuiano e mi viene sonno».
In Non ci resta che piangere l’auto dei due protagonisti si ferma a un passaggio a livello ed esce immediatamente di scena. Nella stessa pellicola il bidello Troisi è costretto dal maestro elementare Benigni a rincorrere Cristoforo Colombo ma è una rincorsa lenta, a piedi o in barroccino, che si rivelerà inconcludente. In Scusate il ritardo un’infinita passeggiata sotto la pioggia, con sosta mitica sulle scale, diventa simbolo della pellicola. Una camminata fradicia, nemica del chiarimento, persa nella notte, in cui Vincenzo (Troisi) non riuscirà a placare il cuore del lasciato Tonino (Arena) e si ritroverà il giorno dopo a letto con un’inarrestabile febbre.
In Ricomincio da tre Gaetano, facendo l’autostop per raggiungere Firenze, sale sull’auto di un’aspirante suicida che va a tavoletta per farla finita. «Andate piano… andate piano… andate piano» ripete spaventato in macchina. Solo un folle può correre o un pazzo d’amore se si pensa all’unica accelerazione presente nella filmografia di Troisi: la spettacolare corsa intorno al palazzo che un Gaetano invaghito improvvisa per inscenare un incontro casuale con Marta. Per il resto è tutto un “andare piano e liggieri”. Così è scritto nei diari della bicicletta di Massimo Troisi.