Nell’alterazione dell’umore delle stagioni – diavolerie climatiche cui nessuno sa dare decisive spiegazioni – non varia di una sola rosa l’aria fresca e ‘mbarzamata della primavera partenopea. L’influencer del Pallonetto, di marottiana memoria, avrebbe definito il rapporto tra maggio e i napoletani azzeccuso. Morboso lo è, non ci piove. Di questi tempi le Madonne dei tabernacoli sono vestite di fiori: è il mese mariano, la città snocciola rosari e svuota roseti. In quel regno di scorci e bazar che prende il nome di Pignasecca – una volta, da queste parti, un pino detto Pigna grattava il cielo e, si racconta, nascondesse gazze ladre – la primavera sboccia e si compra: è il mese delle cerase e delle crisommole. “Era de Maggio”, “Torna Maggio” e “Maggio si’ tu” furono l’oro, l’incenso e la mirra che i re “maggi” della canzone Salvatore Di Giacomo, Vincenzo Russo ed E.A.Mario donarono al mondo. Un’occhiata a un libercolo di liriche, un’oretta alla Pignasecca e una sosta a un’edicola votiva del rione Materdei inchiodano ogni dubbio sull’antica passione della città per il mese dei mesi. Se ci mettiamo pure che i sì arrivano ’na sera ’e maggio come gli scudetti che don Diego cucì sui cuori di Napoli campione, l’idillio è tratto.
Maggio è per i napoletani come ‘a sporta d’ ’o tarallaro: c’entra di tutto. Sentimenti e pentimenti, Urano e Gea, sacro e profano, Apollo e Dioniso, luci e lutti: «chist’ è ‘o mese d’’e peccate e d’ ’e preghiere» (E.A.Mario). In questo rischiatutto di emozioni la città non lascia mai, ma raddoppia: l’amore è ammore e le rose sono rrose. Si ama di più a tal punto che s’accorciano i tempi della nascita: «Chist’è o’ mese d’ ’e rrose, chist’è ‘o mese ‘e ll’ammore…nove mise ce vonno pe’ fa nu bebè, ma cu st’aria n’abbastano tre!» (Rose ‘e maggio di Manlio-Bonavolontà). Colpa dell’aria, quindi, se tutto succede, da secoli, in questo mese di risvegli benedetti e giostra dei sensi. Se novanta maggi fa, quando il Vomero era un’Arcadia di aranceti e ciliegi, il clan delle lavandaie scendeva a Napoli per omaggiare la Madonna della Neve, protettrice delle sacerdotesse del bucato, con rose e rami di pesco; se Richard Wagner, quando soggiornò a Napoli, confessò: «Stando qui mi sento bene almeno sei giorni la settimana» e il 22 maggio, giorno del suo compleanno, la moglie organizzò una festa a Villa d’Angri addobbando la sala del ricevimento con sessantasette rami di rose rosse; se E.A.Mario, il bardo del Piave, confidò in una lettera del 1950 al direttore del Mattino Giovanni Ansaldo che era nato in un «lontanissimo» maggio e che di maggio gli capitanavano «sempre le cose più segnalabili dell’anno». Nella poesia Atto ‘e nascita del 1929 scrive: «I’ songo nato… ‘e cinche ‘e maggio, o’juorno dopp’ ‘o sfratto e perciò campo sempre spatriato».
I maggi di napoli iniziavano con uno sfratto: la città diventava un campo di battaglia
I maggi di Napoli iniziavano con uno sfratto. Come risveglio non era il massimo: le rinascite cominciavano in mezzo alla strada tra la casa vecchia e quella nuova. Era il 4 maggio, l’immensa giornata napoletana del gran trasloco. La primavera degli sfrattati. In quel giorno era consuetudine lasciare le case. La popolazione rispettava scrupolosamente questa festività al contrario e seguiva una prassi consolidata nel tempo: il 4 gennaio, sui portali dei palazzi, s’esponeva il cartello con la scritta “Si loca” e il 4 maggio bisognava sloggiare. Solo in un calendario di un paradiso imperfetto com’è Napoli poteva essere segnata una data simile. Il calendario degli sfollati. La città, sotto un cielo preso a sassate dalle rondini, si trasformava in un campo di battaglia. Immaginate strade, vicoli e vicarielli assediati da piramidi di tavolini rotti, sedie squinternate, divani a fiori, materassi, letti e lettoni, armadi, piennoli di lumi e cassettoni. La parola d’ordine era “carriare” tutta la casa su carretti di fortuna tirati dai cavalli più fieri o dai somari più eroici. Domestiche dalle mani di pietra e bodyguard dell’ultima ora venivano assoldati dagli sloggianti per le grandi manovre. I più poveri, su barroccini sgarrupati, ammonticchiavano le loro masserizie, attenti che il loro arredamento arrivasse fino alla casa promessa. Tra incitamenti, schiocchi di frusta, rifornimenti alle fontane, casciapanche che si rovesciavano, lampi di cristallere e l’indolente curiosità dei passanti, lo spettacolo aveva inizio.
Scrive la Serao: «Era la giornata più strana, più buffa, più drammatica, più ridicola e più desolante in cui migliaia di persone non avevano un tetto sicuro, più, fra la casa vecchia e la casa nuova: in cui molte migliaia di persone non mangiavano, non bevevano, non dormivano, crepando dalla stanchezza, e dalla malinconia». Un altro esodo avveniva in quei giorni: quello alle ricevitorie del lotto. Un terno secco da giocare per forza: 52, il trasloco; 66, la casa nuova; e ovviamente il 4. Un’altra terra promessa, un’altra puntata sulla speranza. Ma non tutti giocavano il 4 per beghe storiche. Nel Cinquecento infatti lo sgombero di mobili avveniva il 14 agosto alla vigilia della festa dell’Assunta. Una crociata di parroci, preoccupati che i fedeli potessero marinare le funzioni pensando più alla loro casa che a quella del Padreterno, favorì lo spostamento della data al primo maggio con un editto emanato il 24 dicembre del 1587 dal conte Miranda, viceré di Filippo II. Data che non ebbe vita lunga. Nel giorno prescelto ricorreva la Festa dei santissimi apostoli Filippo e Giacomo, protettori della Spagna, che sarebbero stati ignorati dal popolo sloggiante. Il re Filippo III, appena salito al trono, decise di comune accordo con il nuovo viceré di spostare il cambio di casa il 2 maggio. Mai scelta fu più scellerata: questa volta scesero in campo i più accesi bigotti che sottolinearono come i traslocanti, stanchi per l’esodo, il giorno dopo avrebbero, di certo, disertato i riti riservati all’invenzione della Santa Croce. La scelta allora cadde sul 4. Era il 29 marzo del 1611. Una delle date più sfrattate della storia fu sloggiata anche dal calendario quando il progresso arrivò a Napoli. Le agenzie di trasporto e la crescita degli alloggi sconfissero la legge del 4. L’addio alle vecchie stanze divenne segreto. La leggenda dell’esodo ha trovato casa nei libri di storia popolare e in un pugno di foto con i ciuchi scoppiati; le sue tracce vivono nella locuzione dialettale «fa ’o quatto ‘e maggio», nella letteratura e nelle canzoni come quella di Armando Gill, cantautore del popolo e imbattibile creatore di stornelli, che nel 1918 cantava: «Core, fatte curaggio/ ‘a vita è nu passaggio / Facimmancillo chisto quatt’’e maggio / Che ce pensammo a ffà / si ‘o munno accussi va?». Versi scolpiti sulla sua tomba, simbolo di un ben altro trasloco.
Ascolta il tuo maggio, Napoli. C’è un asino patinato che in questi giorni mariani ammicca a Napoli sui tabelloni pubblicitari. Posa per la campagna di comunicazione di un brand d’abbigliamento e le sue orecchie, segno di stupidità e indolenza, spiccano alla Marina, mentre l’auto sobbalza su una via simile alla crosta lunare e non c’è sagoma di vigile a governare lo spazio. Gli artefici della trovata pubblicitaria hanno piazzato ovunque l’animale caro ad Apuleio e Collodi, senza sapere che maggio è il mese degli asini. O almeno lo era. Non a caso il ciuco è detto «‘o muséco ‘e maggio» (il cantante di maggio) per quel raglio di sentimenti che in primavera diventa più insistente come il profumo delle rose. Maggio 1920: Armando Gill sta cantando in un teatrino “Nun so’ geluso”. All’improvviso il suo canto è interrotto da un raglio impetuoso. Gill smorza le risate del pubblico con questi versi: «Non posso continuar:/ Questo per me è un corruccio. Llà fore canta ‘o ciuccio / e i’ nun saccio arraglià!». Anche i somari hanno un cuore.
Matilde serao scrisse un elogio dell’asino che s’innamorava nel mese delle rose
Matilde Serao, in un moscone del 3 maggio del 1894, nel difendere l’animale dalle solite malelingue, si chiede: «Stupido un animale che sceglie il mese di maggio per il mese del suo amore e che in queste giornate fiorite e odorose, innamoratissimo, raglia con la soavità e con la forza di un tenore di grazia e resistenza, insieme? Stupida una bestia così piena di gusto poetico ed estetico, da voler celebrare le sue nozze nel mese delle rose?». Nozze che mettevano in crisi l’impresa itinerante di Peppe ‘o ciucciaro, domatore di asini dagli occhi felini. Il suo vero nome era Giuseppe Tamaggio (notare bene che anche nel cognome è presente la password della stagione), il suo core business fu di creare a Napoli un servizio di trasporto tra città bassa e città alta grazie ai suoi valorosi ciuchi. A maggio i somari si perdevano nell’ammore e capitava che tornassero in ritardo alla base di via Salvator Rosa. Le cavalcate sui destrieri di Peppe ‘o ciucciaro erano gettonate e le tariffe popolari: la corsa più cara costava quattro soldi e portava ai Camaldoli. Lo scrittore Roberto Minervini ricorda: «Ogni giorno, dall’alba al vespero, sempre impassibile, fresco, ilare Tamaggio provvedeva a incamminare le sue bestie, a controllare il loro ritorno, a condurle nella stalla. Era stato capace di abituarle a discendere da sole, senza guida alcuna: compiuto il loro dovere esse raggiungevano a carovane, in libertà, il “basso” del loro padrone, per riprendere più tardi un nuovo viaggio».
Ogni storia ha un capitolo finale: la modernità atterrò l’impresa. Le vetture tranviarie sorpassarono i ciuchi che furono ceduti in fitto ai carrettieri quando il carico era pesante e i cavalli facevano i preziosi. Venne il tempo del rombo che coprì quello del raglio. Gli amori somari delle primavere benedette di una volta scomparvero tra gli eremi camaldolesi e le suppliche al cielo. Fu così che Napoli perse i suoi asini, restando città da soma: con disinvoltura continua a portare sul dorso un’impegnativa antichità.
*Tratto dal libro “Tropico della spigola” (Iuppiter Edizioni, 2019)