Stare nel guado tra il comico e il tragico è l’attitudine del blob governativo che tiene l’Italia relegata nel covo dell’incerto. Non v’è un solo messaggio che arrivi dal cabinato dell’ex avvocato del popolo e della sua corte, a corto d’ogni ragion veduta, che medichi l’anima, dia energia all’economia e smalto al domani. Se del premier abbiamo imparato a conoscere la spedita parlata nel nulla e l’intenso ammiccamento, sono mesi che, con l’accumulo di questioni irrisolte e di pubbliche spiegazioni su come ripartire, siamo precipitati nel girone espositivo dei ministri, ognuno dei quali nei toni e negli atteggiamenti – non pervenute le azioni – sta dando il meglio di sé nel deprimere un Paese già fragile, vecchio e fortemente provato.
Chi ha la predisposizione a pratiche masochiste, recuperi gli interventi del ministro Speranza, uno che porta nel volto già i segni della fine del mondo, strenuamente impegnato a mettere le mani avanti anche sul suo cognome, dandosi al vertiginoso esercizio della cautela e alla diffusione dell’algoritmo dell’imprevedibilità, proprio lui che, prima del lockdown, insieme ai blateranti Burioni e Galli, al Sala drinkeggiante, al Conte pochettizzato, al Salvini in bambola e al furioso Scanzi, riempiva le fila dei cazzari del virus, sostenitori del “rischio zero contagi” in l’Italia. Fate caso alle uscite del ministro Gualtieri, predicatore di un ottimismo di facciata dai dati sempre “incoraggianti” che, Mes o non Mes, non riesce proprio a levarsi dalla faccia l’aria di chi si piazza in prossimità dei buffet e smista, con goduriosa insistenza, consigli su tartine e mousse.
La misura dei tempi la dà la ministra Azzolina che zampilla felicità nell’illustrare l’importanza di un software che calcola gli spazi nelle scuole per il ritorno a una «didattica in presenza». Se fosse per lei terrebbe tutti a casa a riempire imbuti a vita, ma al momento è sulla ribalta per la diligenza che mette nell’applicare il teorema “antani”, omaggio al conte Mascetti e alle sue indimenticate “superacazzole prematurate”, in ogni sua bozza di pensiero: «La configurazione concettuale e concreta dell’attività ‘a distanza’ rappresenta una sfida e al contempo un’opportunità».
Nell’attesa di una riconfigurazione del dicastero dell’Istruzione, poiché è tanto il desiderio di prolungarci il soggiorno nell’apocalisse, il ministro Boccia, intervistato sulla volontà del governo di prorogare i poteri speciali, s’è rifugiato in bibliche metafore col consueto cipiglio da sacrestano: «Lo stato d’emergenza è la nostra arca di Noè». E se non vogliamo salirci, è possibile gridarlo al regno dei Cieli? È possibile ribellarsi all’antidemocratico dpcm, alla sospensione del buonsenso in un Paese virologizzato? Tra le più recenti dichiarazioni, fuoriuscite dal cabinato Conte, c’è quella della ministra Lamorgese che sparge altra benzina sul fuoco: «Concreto il rischio di un autunno caldo con episodi di rabbia sociale». A giugno, in una pausa caffè, Gualtieri ammetteva: «Lavoriamo per evitare rivolte sociali».
Boccia: «Lo stato d’emergenza è la nostra arca di noè». E se non vogliamo salirci?
Il varo dell’arca è la carta d’imbarco per blindare la sopravvivenza di un governo che si regge sulla paura che il virus ritorni a correre dopo i pedalò; sulla narrazione arruffona di un’Europa rinsavita, prontissima a coprirci di soldi; con la favolaccia del “pericolo delle destre”, proprio in tempi in cui l’ibernazione dello stato di diritto è realtà quotidiana nel complice mutismo del Partito democratico; contando sulla volontà d’acciaio di gran parte del Parlamento di congelare il voto perché spazzerebbe via con un colpo d’onda l’attuale assembramento di poltronisti, frattaglie e chiappe varie. In pieno regime epidemiologico, mentre sulle spalle dell’autunno si caricano irresponsabilmente sciagure e disgraziati avvertimenti, c’è da chiedersi chi sia pronto realmente ad affondare l’arca e a trasformare il disagio economico in inevitabile insurrezione. La rabbia in resa dei conti, la precarietà in pretesa di civiltà.
Se dovessimo aprire le iscrizioni alla rivolta sociale, chi aderirebbe? Non certo i lavoratori sul sofà, i talebani dello smart working, i distanziatori sociali per professione, gli anaffettivi gestori di rendite, gli arricchiti dalla vertigine digitale, gli impiegati dell’usura, i camorristi dell’emergenza, i profeti del rinvio, i sindacalisti a gettone, i trafficanti dell’immigrazione, i parassiti delle società partecipate, gli spaventati cronici, i collezionisti glamour di mascherine, le sardine addolorate e i rapper che inneggiano alla rivoluzione dello stordimento seduti su latrine d’oro. Il problema vero restano le iscrizioni, il pieno e spontaneo coinvolgimento dal basso, così legato alla carica di disperazione e al disagio economico non più gestibile che in tanti profetizzano a estate compiuta.
Che forza avrebbero le piazze con l’assedio dei nuovi poveri, l’ariete delle partite Iva, la generazione “800 euro”, i tartassati delle piccole e medie imprese, gli indebitati del turismo e della ristorazione, i lavoratori della cultura calpestati come cenci immaginari, le vite “rateizzate” delle giovani coppie, le famiglie senza più risparmi nelle periferie dei sogni bruciati? Avrebbero una forza dirompente e decisiva se non stessimo in Italia, ancora più divisa dopo la pandemia, spaccata come un’anguria, metà gialla e meta rossa, propensa al litigio e al primato della mediocrità, disonesta e faziosa, rifugiatasi nella questua e nella pavidità, attendista per assenza di visione, con una magistratura devastata e una democrazia “a porte chiuse”. Un Paese spoglio di qualsiasi orgoglio nazionale, strafottente dei tanti eroi invisibili e produttivi che continuano a macinare speranza.
La rivolta sociale ha un suo peso politico e storico se unisce Sud e Nord, se mostra un’unità d’azione e una condivisione di soluzioni, se schiaccia i tarli del localismo e della discriminazione territoriale, se si presenta compatta nelle richieste, se dialoga con le opposizioni mantenendo l’ultima parola, se incalza i poteri senza cedere a compromessi e accettare fugaci contropartite. Mentre i ministri ciacolano, i virologi si candidano e i sottosegretari prenotano il resort, c’è qualcuno che scorge all’orizzonte una rivolta così fatta? Non vediamo nulla, neanche un fumogeno. Anzi, conoscendo la dimestichezza che quelli dell’arca hanno nel burocratizzare le esistenze e umiliare il pensiero altrui, siamo convinti che presto s’inventeranno l’autocertificazione per il “contenimento della rabbia sociale”, con l’obbligo di tamponi ideologici, il divieto di elaborare ragionamenti contrari e l’uso di campanelle al collo – il cui reperimento sarà affidato al supercommissario Arcuri – per censire i lupi della libertà.
Lo stato d’emergenza è la panacea di tutti i beni: guai a dissentire nell’attesa del vaccino. Per quelli dell’arca l’immunità di gregge significa innanzitutto rimandare l’immunità per governare e terrorizzare meglio il gregge. Se potessero, sarebbero capaci d’imporre a tempo indeterminato un cielo a pecorelle.