All’arrivo sul ponte, lo scenario domenicale consegnava, oltre a un furore di telecamere e a una macchia di curiosi, una sagoma troppo avanti nel cielo. La novità di un rimorso, pronto a uccidersi per troppi rimorsi, entrò nelle cronache terrestri come una scattante linguaccia nell’omelia di un parroco giudizioso. I familiari le provarono tutte pur di convincerlo a non saltare nel buio. Chiamarono come negoziatore prima un illuminato senso di colpa che, intabarrato per il vento crudele, parlò inutilmente al disperato; poi, anche se non era mai corso buon sangue, coinvolsero una cagionevole coscienza pulita, che tra una raccomandazione di mutar vita e una soffiata di naso, non contribuì a schiarire quell’animo.
Microfonati e tonificati dall’evento, aprirono e chiusero trattative un presentatore di reality show che promise ospitate milionarie, uno psicoterapeuta mistico che ragionò sull’amore per l’invisibile, una scrittrice del cuore che ne approfittò per promuovere la sua ultima storia di anarchia vegetariana. Non mancarono i tentativi di influencer, politici green, filosofi pettinati e poeti ben vestiti, uno dei quali, dopo essersi stretto meglio un cravattino magenta, ammise la sconfitta d’ogni parola o canto, dicendo che non c’era stato verso di allontanarlo dall’abisso. Niente da fare: il rimorso aveva le scarpe quasi nel vuoto e l’appagante pensiero di lasciarsi cadere.
Una faccia improvvisa, col bavero che copriva mezzo volto, gli occhi di chi ha archiviato tempeste e diari interrotti, si fece largo in quella messa in scena. Evitò lo spettacolo, si staccò dagli altri non prima di aver rassicurato i familiari che tutto si sarebbe risolto. Questa volta nessuna poesia, nessuna promessa. Questa volta solo una bella spinta. «Tanto non muore un rimorso, ho chiesto ai miei», disse nel bavero. Sparì dal ponte senza rilasciare interviste, mentre una voce lontana chiedeva con insistenza di riavere le scarpe.