HomeCaduta MassiManfredi, il sindaco mendicante

Manfredi, il sindaco mendicante

Ci saremmo aspettati dal freschissimo primo cittadino di Napoli, da sempre ai vertici di un’élite egemonica abile nell’esercitare il dominio in modalità sottotraccia, un inizio di sindacatura da rettore del fare più che da fuoricorso della ciacola. Appurato che il “patto per Napoli”, promozionato in campagna elettorale come il vaccino supremo contro il dissesto, si è rivelato un gettone propagandistico di quel collaudato juke-box del progressismo alla pummarola, ci saremmo augurati che il neosindaco Manfredi abbandonasse la cantilena, così cara a de Magistris, di un Comune senza pecunia.

Sentirgli dire, a poco più di un mese dalla vittoria, che «non ci sono soldi e personale per garantire i servizi minimi alla città», ci è sembrato un atto di gigante ipocrisia; sentirlo poi addirittura minacciare di abbandonare il “trono di rate” di Palazzo San Giacomo se non arrivano fondi dal governo Draghi, è stato un colpo di mestizia incalcolabile. Non sappiamo chi siano i suggeritori dell’ingegnere di Ottaviano, proclamato sindaco in una città in cui ha votato solo il 48,17% degli aventi diritto, ma conosciamo fin troppo bene il protocollo del piagnisteo che don Gaetano della Mancia sta seguendo impeccabilmente, senza disprezzare la consuetudine, mai portatrice di idee e visioni, di mettere sul tavolo delle lacrime la dicotomia città del Nord-città del Sud, per sottolineare un divario di qualità della vita e della spesa ormai compromesso e di difficile soluzione.

Non se ne può più. Pochi giorni dopo tali sortite questuanti, precisamente il 14 novembre, in occasione della prima edizione della “Italiana Assicurazioni Neapolis Marathon”, Napoli è diventata un supplizio d’ingorghi. La chiusura al traffico di gran parte della città – la gara proponeva un percorso di 42,195 chilometri – ha stravolto la giornata dei non corridori a causa di un fallito piano di viabilità e di un’evidente incapacità dell’amministrazione Manfredi di prevedere i disagi che l’evento avrebbe comportato.

Chi conosce il già precario equilibrio della circolazione a Napoli, ancora più instabile per cantieri lumaca, palazzoni intubati per la terapia ecobonus e gallerie sospese, avrebbe dovuto immaginare le conseguenze della maratona. La cronaca di quella domenica bestiale, più che sui dormienti media locali, l’abbiamo letta sui social tra racconti di treni persi, vicoli in stato d’assedio, tassisti costretti a fare scendere i clienti, pullman incagliati nella baraonda: una narrazione dalla strada, drammatica e indignata, a testimonianza dell’assurdità dell’accaduto.

Aver preso sottogamba una gara di corsa non è soltanto un paradosso, ma è la dimostrazione di sciattezza istituzionale e miopia operativa di chi ne sa poco del corpo reale della città e pochissimo dell’anima domenicale partenopea che prevede la moltiplicazione dei ragù e degli spostamenti per raduni familiari, passeggiate al centro, visite ai parenti, agli altari e alle pizzerie. Neanche lo avesse fatto di proposito, qualche giorno dopo l’Inferno maratona, la giornalista Valèrie Segond su Le Figaro ha pubblicato un reportage su Napoli, evidenziandone le criticità – trasporti pubblici, camorra, periferie, organico comunale carente, povertà – per poi sintetizzare il ritratto della città con la sentenza: «Napoli è il terzo mondo d’Europa».

E qui ci sarebbe un “mondo” da aprire su cosa sia Napoli (e il suo popolo), sull’impossibilità di trattenerla in un giudizio definitivo, sull’abilità che possiede nel sentirsi “finimondo”, nel rifiutare un “mondo nuovo”, nel rifugiarsi in un mondo immobile della memoria commemorativa (Corrado Alvaro in Quasi vita: «Il vero presente per i napoletani è il passato»), ma ci limitiamo a registrare, dall’ateneo della lagna, la risposta alla giornalista francese del neosindaco: «Se tanti turisti e tanti amici vengono a Napoli con tanta passione e desiderio significa che siamo ben altra cosa». Ancora una volta un Manfredi alla de Magistris, non solo mendicante ma anche tour operator, con la favoletta del turismo spiattellata in automatico, che serve a coprire disservizi e primati di invivibilità con la bellezza e la tipicità del luogo.

Il guaio più grosso, però, ogni volta che qualcuno azzarda giudizi sulla città, è il doversi sorbire le prese di posizione dei cantori dell’epicità partenopea, che Luigi Compagnone chiamava «i perbenisti della nazione napoletana», i quali s’esibiscono in preconfezionati attestati d’amore pur di marcare il territorio con gli struffoli della napoletanità. Un atteggiamento stucchevole di chi non ha il coraggio – né la cultura – di fare i conti con quel “terzomondismo” che scandalizza perché contiene verità. Raffaele La Capria ne L’occhio di Napoli (Taccuino 1992-1993) scrive: «E c’è il problema di certe città come Napoli, microcosmo di un mondo che contiene in sé un Terzo mondo indomabile e incontrollabile. Questa non-speranza, questa impossibilità oggettiva o come tale percepita, è forse entrata a far parte dell’inconscio collettivo dei napoletani e produce quella specie di immobilità che io avverto».

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