Scampato all’ennesima rissa dei rimorsi, s’incamminò un giorno verso una traversa ragionante di begonie e lance d’agave. Chi lo incontrò in quella scorciatoia sorvegliata da una chiesa di pietre, s’imbatté in un’ombra priva d’anima, barcollante come un funambolo all’ultima corda, così piena d’occhi scagliati nel punto più lontano del cielo, tanto da saper scrivere ancora speranze in quella terra inaridita e abitata dal silenzio. La scelta di farsela a piedi, rinunciare alle ali dei motori e al turbo di collaudati sistemi, lo costrinsero a una vita incomprensibile per gli abitudinari degli inginocchiatoi e i collezionisti di cerimonie, ma entrò, con lo slancio dei sogni, nei sentimenti d’una minoranza rara, dedita essenzialmente all’osservanza estrema della libertà e alla difesa del sorriso ricercato. Il cammino come risoluzione all’imposizione del volo, un paio di scarpe contro il regime del guinzaglio, un bastone, fatto con il legno d’un albero di fico, come unico alleato in sentieri spariti dal mondo e salite tra arazzi di nuvole. La natura pensò alla cura di quel forestiero che aveva solo parole per gli alberi, entrava e usciva dalle città delle formiche, scopriva sorgenti, apriva le camicie dell’alba, rubava le stelle alla notte. Chi giudicava folle quell’esistenza ambulante e isolata, distante da tumulti e conteggi, al passo con un altro tempo, non ebbe mai la fortuna di cogliere la grazia di quel volto fuori da qualsiasi gabbia. Chi imparò ad amarne la bellezza del passaggio, trovò l’indirizzo dell’avanguardia.