Pronto per un’impresa che smuoveva montagne, s’accorse ad alba avvenuta che s’erano rubati l’autostima. Un rumore dalla strada lo svegliò all’improvviso e alla finestra seguì impotente la manovra di uno spettro seduto nel suo abitacolo. Eppure l’antifurto era azionato, il veicolo non presentava eccessi di lusso né carrozzeria da sfilata, anzi era alquanto ammaccato, con ruote logore e la stanchezza nel motore. Telefonò al mondo per comunicare la sparizione, mentre prendeva coscienza dello smarrimento della lotta, cancellando dall’agenda le prossime sfide, gli appuntamenti fluorescenti, le corse ai tesori.
Ossessionato nel ritrovare quell’auto, si perse a piedi nella metropoli del disincanto, seguendo le dicerie di carrozzieri senz’ambizione e le visioni di parcheggiatori vaganti. Non poteva concedersi altra macchina perché in quella c’aveva messo dentro l’ultimo pieno di speranza, dopo essersi trattenuto più volte nel gran premio dell’esistenza per assenza di coraggio. Le tentò tutte per aggrapparsi a un fanale o a un tergicristallo, frugò persino in un malfamato centro di demolizione dove un’ammucchiata di cofani sbarrava una curva di cielo.
Alla notte testimoniò il dramma di non avere più la guida di sé, alla mattina la fatica di rimettersi in carreggiata. Fu proprio in quel vuoto di gare, necessario per riappropriarsi del volante, che l’invisibile iniziò a divenire il suo nuovo cruscotto. La solitudine della manutenzione lo portò ad azioni mai fatte prima: cercare nell’aria le marce del ritorno, immaginare un contachilometri di buonsenso, accettare lungo il tragitto i furti del destino. Lavorò da fermo per sentire di nuovo l’anima del pilota e tracciare davanti a sé un’altra impresa. Guarì quasi del tutto quando lasciò l’autoricambio per entrare in una concessionaria di sogni.