Per un dolore improvviso all’anima, dovuto al contatto con gli spettri della paura, gli fu prescritto l’isolamento fiduciario della parte migliore di sé. Per un periodo restò a vivere esternamente con la parte più oscura, abile nel trasmettere ansia e smontare i sogni. L’altra invece non uscì per giorni e, in solitudine forzata, si ritrovò a frequentare violini, a recuperare letture smarrite, a riscoprire la linea dei ricordi, a calarsi nelle notti del non detto. Una mattina trovò persino il coraggio di mettere le mani nella cassa dei giocattoli, in cui nei colori del diletto risentì l’odore dei pomeriggi svaniti e i richiami della ricreazione.
Lontano dalla violenza della vita e dall’abitudine al risentimento, la parte migliore di sé guarì, ritornando nella socialità al fianco di quella buia con qualche certezza in più. Capì meglio che niente è come sembra, scoprì il fascino della distrazione e la bussola della tenacia. Rubò al vissuto la consapevolezza del limite, non seppe più fare a meno di dialogare con l’immaturità della gioventù. Ma ciò che stupì il mondo nel rivederla in giro fu il vezzo che, prima della sera, praticava quasi sempre alla stessa ora: una partita a Shangai con chiunque si trovasse nelle vicinanze. Gli occhi fissi a un telaio di bastoncini, l’esercizio della pazienza, l’accortezza in un delicato movimento, l’accettazione dell’intrigo. Porre il proprio tempo, una volta al giorno, tra il crollo e la soluzione.
